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I MALI NECESSARI #3

Pazzoide

Pazzoide

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Pazzoide è il terzo libro della serie I Mali Necessari.

Please note: This listing is for the Italian e-book edition.


MAIN TROPES

  • Insta-Love
  • Dirty Meet-Cute
  • Billionaire
  • Secret Identity
  • Touch Him and Die
  • Found Family

SYNOPSIS

Atticus Mulvaney è il figlio maggiore dell’eccentrico miliardario Thomas Mulvaney – un ruolo che prende molto sul serio. Come tutto, del resto. Alla stregua dei fratelli, Atticus è uno psicopatico, allevato per correggere i torti di un sistema giudiziario corrotto. A differenza dei membri della sua famiglia, però, lui non è molto bravo a farlo.

Jericho Navarro non è uno psicopatico, ma è un assassino feroce. Come Atticus, anche lui ha una vita segreta. Per i più, infatti, lui è solo un meccanico. Ma per un gruppo raffazzonato di disadattati sociali è Peter Pan, colui che insegna loro a eliminare senza alcun compromesso la feccia che fa del male ai più deboli.

Quando Atticus e Jericho si trovano faccia a faccia davanti allo stesso nemico, il loro incontro accidentale finisce in un amplesso esplosivamente sensuale che nessuno dei due riesce a dimenticare. Eppure non hanno nulla in comune. Atticus è uno scienziato abbottonato, mentre Jericho è un uomo in missione, determinato a trovare e punire i responsabili della morte di sua sorella. Tuttavia, Jericho non riesce a stargli lontano. E in tutta sincerità Atticus non vuole che lo faccia.

Via via che la missione di Jericho inizia a debordare nella vita di Atticus, le loro due famiglie, diverse ma ugualmente brutali, si trovano costrette a dover collaborare, e a imparare a farlo, per sconfiggere un nemico comune. Nessuna quantità di forza bruta, però, potrebbe mai mostrare a Jericho il modo per scalare le pareti del cuore di uno psicopatico. Riuscirà a convincere Atticus che, a volte, la coppia che uccide insieme rimane insieme?

Pazzoide è una storia d’amore particolarmente psicopatica e super sensuale, con lieto fine e senza cliffhanger. Ha come protagonista un maniaco sessualmente confuso e maldestro, e il capo di una banda che non riesce a smettere di tormentarlo. Come sempre è possibile trovare violenza gratuita, umorismo molto oscuro, più assassini di quanti se ne possano contare e una chimica esplosiva a sufficienza da radere al suolo un isolato. Questo è il terzo libro della serie I Mali Necessari. Ogni libro segue una coppia diversa.

LOOK INSIDE: CHAPTER ONE

Atticus imprecò quando i suoi stivali da trekking costati trecento dollari affondarono in un solco fangoso nel terreno. Era la cosa più vicina a un sentiero, nel fitto sottobosco. Aveva piovuto, qualche ora addietro, perciò la passeggiata attraverso la vegetazione si stava rivelando essere molto più insidiosa di quanto avesse immaginato. Si era vestito per l’occasione, con una maglietta nera a maniche lunghe e pantaloni tattici impermeabili. Anche lo zainetto appoggiato sulla sua spalla era l’ideale per le escursioni. Solo che non si era aspettato che facesse tanto caldo… né di trovare tutto quel sudiciume. Odiava sporcarsi.

Il suo stivale fece un osceno suono da risucchio mentre lo tirava fuori dal fango con un grugnito disgustato. Avrebbe dovuto trovare un modo per ripulirlo prima di andarsene. Non avrebbe mai tolto quel lerciume dalla sua auto, altrimenti. L’odore della pioggia e degli arbusti in decomposizione gli sarebbe rimasto impresso nelle narici in maniera permanente.

Il suo obiettivo, Trevor Maynard, era un piagnucoloso aspirante membro di una gang che godeva nell’approfittare delle donne immigrate che i suoi genitori assumevano nella lavanderia di loro proprietà. Indossava magliette aderentissime e pantaloni dalla vita molto, molto bassa, e pensava che legarsi una bandana sulla fronte bastasse per diventare una specie di criminale.

A Trevor piaceva abusare del proprio potere, tanto che minacciava di rivalersi sul lavoro delle sue vittime per attirarle nel bosco, dove nessuno le avrebbe sentite urlare. Nonostante reputasse corretta in termini di karma l’insistenza di Thomas nel voler catturare quel tizio in mezzo al nulla per ucciderlo, secondo lui era anche inutilmente drammatica.

Quelli come Trevor raramente opponevano resistenza davanti al pericolo. Semmai, quel tipo avrebbe supplicato e implorato, avrebbe tentato di far leva sul proprio status sociale – che in realtà era inesistente – e avrebbe offerto denaro come ultima risorsa. Sarebbe finito tutto allo stesso modo di sempre: con Atticus che, come un moderno Jackson Pollock, schiantava il suo cervello da qualche parte, in quel caso contro la parete posteriore della sua baita schifosa. Restava il fatto che quell’omicidio avrebbe potuto commetterlo in un posto un po’ più vicino alla città.

Non aveva discusso con suo padre, però, decidendo invece di eseguire gli ordini come il diligente figlio maggiore che era. Prima avesse finito, prima avrebbe potuto tornare a casa e farsi una doccia. Il giorno seguente avrebbe dovuto alzarsi presto per andare in ufficio. Per fortuna la luna piena proiettava un largo fascio di luce, il che gli consentiva di vedere senza molti problemi dove mettesse i piedi, anche se il percorso che stava seguendo non era affatto un sentiero. Uscì dal boschetto di alberi e si ritrovò finalmente di fronte al piccolo chalet. Perché quei tipi inquietanti avevano sempre delle baite nel bosco? Secondo Atticus torturare la gente in città era altrettanto efficace. Le persone non avevano alcun problema a ignorare la sofferenza degli sconosciuti. Era triste, certo, ma anche utile in quel particolare ambito di lavoro.

Un urlo spacca-timpani penetrò il silenzio, spedendogli una scarica di adrenalina nelle vene che lo portò ad accelerare il passo senza nemmeno accorgersene. Tirò fuori la pistola, accertandosi che fosse carica, con la sicura in posizione e il silenziatore inserito, poi avanzò sul fragile uscio della baita. Perché non aveva pensato all’eventualità che quel tipo non sarebbe stato solo?

Gli occorsero due calci ben piazzati prima che la porta volasse dai cardini, spaventando gli occupanti. Quella che avrebbe dovuto essere la sua vittima era legata a una robusta sedia di legno al centro della stanza, il corpo sanguinante per le diverse ferite e privo di almeno tre dita e uno dei due lobi. Non c’era nessuna donna nella stanza, quindi l’urlo doveva per forza essere provenuto da Trevor.

In piedi accanto a lui c’era un uomo sulla trentina che reggeva una lama dentellata dall’aria spietata. Indossava dei blue jeans sbiaditi e una maglietta nera a mezze maniche e con lo scollo a V che rivelava un tatuaggio intricato lungo tutto il braccio sinistro. Atticus rimase impietrito sul posto, gli occhi puntati sui folti capelli neri dell’intruso e le sopracciglia che attorniavano il suo paio d’occhi castano scuro, capaci di donare al suo viso un certo tono di serietà. Lo sconosciuto sembrava irritato e sorpreso, ma era chiaro che stesse soppesando le proprie opzioni.

«Ho sentito urlare,» esordì Atticus debolmente.

L’uomo sbatté le palpebre, confuso, poi sollevò il coltello. «Lo fanno tutti quando li colpisci con questo.»

Atticus gli rivolse un’occhiata incazzata. «Sì, ho collegato i puntini, grazie tante.»

Colto alla sprovvista, lo sconosciuto abbassò la mano. «Senti, amico. Questo qui è davvero un cattivo ragazzo. So che sembra un innocuo nerd…»

«Wow,» mormorò Trevor.

«Ma è davvero un enorme pezzo di merda. Perché non ti giri e te ne vai? Fai finta di non aver visto nulla.»

«Come fai a sapere che non sono un poliziotto?» gli chiese Atticus.

L’altro lo derise. «No, che non lo sei. Quella pistola non è della polizia. Diavolo, nessuno sbirro potrebbe permettersi quell’arma.»

Atticus non era sicuro del motivo per cui quella valutazione, espressa con un tono tanto compiaciuto, lo avesse infastidito, eppure era così, e allo stesso modo l’occhiata intensa di quell’estraneo lo fece sentire come se fosse nudo. Che cazzo stava succedendo?

Non era importante. Se avesse mandato tutto a puttane non gliel’avrebbero mai fatta passare liscia. Adam continuava ancora a rivangare l’incidente della mannaia… ed era passato un anno.

Si pizzicò il ponte del naso con le dita guantate. «Sfortunatamente non posso farlo. È sulla mia lista. Devo ucciderlo. Ho… Ci sono persone a cui devo rispondere.»

Di nuovo, quello sguardo lo percorse dall’alto in basso, ma con molto più calore della volta precedente. «Come no. Non sembri affatto un professionista.»

Atticus iniziò a innervosirsi. «Beh, ti assicuro che non sono un dilettante.»

Trevor ridacchiò, ma guaì non appena il suo carceriere lo perforò con il coltello, la lama che affondava a circa un centimetro sopra il capezzolo. «Ma che cazzo, amico!»

«Professionista o no, quest’uccisione è mia. Te lo prometto, non vedrà mai più la luce del giorno. Quindi puoi andartene.»

«No, non posso farlo. Devo vederlo morto. E non ti conosco, quindi le tue promesse non significano un bel niente. Senza offesa,» replicò Atticus, assicurandosi che il suo tono suggerisse in realtà l’esatto contrario.

«Che gran stronzata,» brontolò la vittima.

«Chiudi il becco, Trevor,» scattò l’uomo.

«Ehi, vaffanculo, Jet Li,» ribatté il prigioniero, rendendosi conto dell’errore nel modo di esprimersi nel momento stesso in cui lo sconosciuto lo guardò in cagnesco.

«Jet Li è cinese, coglione razzista. Ti sembro cinese, io, eh?»

Atticus trattenne l’impulso di sorridere a quella domanda tendenziosa.

«Come cazzo faccio a saperlo?» gridò Trevor. «Tutti voi…»

«Gesù, ti prego, non dire che tutti gli asiatici sono uguali,» commentò Atticus. «Muori con dignità, porca puttana!»

Lo sconosciuto gli rivolse un altro sguardo inquisitore che lo fece sentire ardente dappertutto. Si chiese se il suo incarnato stesse virando al rosso intenso. Era uno dei tanti svantaggi dell’essere un rosso puro dalla pelle diafana. Dopo un momento, lo sconosciuto schiaffeggiò la parte piatta della lama contro la porzione di pelle tra gli occhi di Trevor.

«Facciamo un gioco.»

«No, grazie, coglione,» rispose la vittima, con le palpebre che tremolavano come se la sola vista del suo sangue potesse spedirlo all’altro mondo.

L’estraneo prese a girare intorno alla sedia. «Oh, andiamo. Se indovini da dove vengo ti lascio vivere.»

Trevor si fece beffe di lui. «E poi? Quel tizio mi spara? Sono morto comunque, amico.»

Atticus lo squadrò. «Che diavolo. Se indovini da dove viene puoi uscire vivo da qui.»

Lo sguardo del criminale prese a saltellare tra i suoi occhi e quelli dell’altro. «Davvero?»

Lui scrollò le spalle. «Certo. Perché no.»

«Visto? Non hai niente da perdere, solo la tua vita da guadagnare,» incalzò il tipo misterioso.

Atticus saltò sul robusto tavolo di legno, rovistando nel proprio zaino finché non trovò quello che stava cercando: emise un verso soddisfatto quando estrasse la sua barretta ai cereali. La scartò, all’improvviso affamato, poi diede un morso e masticò lentamente sotto gli occhi degli altri due che lo osservavano. «Che c’è? È stata una lunga passeggiata fin qui dalla strada.»

Trevor perse rapidamente interesse per lui. «Quanti tentativi ho?»

Il carceriere lanciò il coltello in aria, poi afferrò la lama tra due dita, riflettendo sulla domanda. «Tre.»

«Oh, andiamo. Ci sono tipo un migliaio di città asiatiche.»

«L’Asia è un continente, razza di cretino. Devi solo indovinare la nazione.»

«Sai cosa voglio dire. L’Asia ha un sacco di nazioni,» si lamentò Trevor.

«Solo quarantotto,» lo corresse Atticus con la bocca piena di burro di arachidi e cioccolato fondente, guadagnandosi un sorrisetto dallo sconosciuto.

«Ehi, sai che non sono cinese, giusto? Quindi ora devi solo indovinare tra quarantasette Paesi. Andiamo, Trevor. Metti al lavoro quel grande cervello razzista.»

«Cazzo. Okay. Ehm, coreano?»

L’estraneo imitò il buzz di un pulsante. «Sbagliato. Ritenta.»

Udirono un altro urlo mentre Trevor perdeva un dito per quell’errore. Atticus prese a dondolare i piedi, guardando la propria barretta. Non era della marca che mangiava di solito. Di norma preferiva quelle che la sua governante prendeva in uno dei supermercati Whole Foods, ma dal momento che quando era andata a fare la spesa non le aveva trovate le aveva sostituite con quelle, che erano leggermente meno costose. Le originali restavano di gran lunga superiori.

L’odore di urina e sangue si fece stucchevole, contendendosi il primo posto, nella scala delle schifezze olfattive, con la sporcizia e la vegetazione fetide di pochi istanti prima.

Trevor prese a lagnarsi e a piangere. «Cazzo… Cazzo. Non hai detto che c’era una penalità per le risposte sbagliate!»

«Hai mandato Jenny Tran in ospedale per sei settimane a causa delle ferite che le hai inferto, e poi l’hai fatta deportare, cazzo. Sei fortunato che abbia iniziato con le tue fottute dita. Ora, indovina o muori.»

Trevor frignò, con la testa che gli faceva avanti e indietro sulle spalle. «Giapponese?» ipotizzò debolmente.

L’affascinante viso dello sconosciuto si contorse in un finto rimorso. «Temo di no, Trevor.»

Quello urlò come una ragazza in topless in un film horror anni Settanta quando perse un altro dito per la sua stupidità. Il suo sguardo irrequieto trovò Atticus. «Dico sul serio. Ho i soldi. Un sacco di soldi. Sparagli in testa e ti darò cinquantamila dollari. Aiutami, amico. I miei genitori ti saranno molto grati.»

Lui emise un verso nasale e si tirò su la manica della maglietta. «Lo vedi questo orologio? È un Patek Philippe. Vale centomila dollari ed è il mio orologio di riserva. Offerta rifiutata.»

Lo sconosciuto fece spallucce. «Quindi siamo solo io e te, Trevor. Ultima possibilità. Cosa ne pensi? Ti senti fortunato?»

Quello gemette. «Non è giusto…»

«No, non è giusto che tu stupri e abusi di donne impotenti che cercavano solo di guadagnarsi da vivere. Non è giusto usare la paura e l’intimidazione per nascondere i tuoi crimini. Quello che non è giusto è costringere le ragazze a subire degli aborti indesiderati per tenere nascoste le tue cazzo di perversioni. Ecco cosa non è giusto. Questo… Questo è il fottuto karma. Ci provi per l’ultima volta o no?»

Un respiro pesante riempì la stanza, e Trevor si guardò intorno come se la risposta potesse apparire magicamente sul muro.

«Tic-toc,» lo prese in giro lo sconosciuto.

«Ehm… Thailandia? Le Filippine? Madagascar?» sparò a raffica Trevor.

«Il Madagascar è in Africa, coglione,» lo corresse Atticus, dando un altro morso alla barretta.

Il carceriere sconosciuto si abbassò fino a sedersi sulle ginocchia di Trevor, il che distorse i lineamenti della vittima per l’orrore. «Risposta sbagliata.»

Atticus non scorse la lama del coltello quando affondò, ma vide il modo in cui gli occhi di Trevor si spalancarono, sentì il crepitio umido del suo ultimo respiro mentre il sangue gorgogliava dalle sue labbra. Lo sconosciuto si alzò in piedi e usò la spalla del cadavere per ripulire la lama da quello schifo, mentre sul petto del corpo inerme sbocciava una macchia rossa.

«Cos’hai intenzione di fare con lui?» gli chiese dopo un po’, accartocciando l’incarto della barretta per poi rimetterlo con attenzione nello zaino.

L’altro scrollò le spalle. «Lo lascerò qui con le porte aperte così che gli animali ripuliscano tutto al posto mio.»

Atticus annuì. Non era quello che avrebbe fatto lui, ma dal momento che non era stata una sua uccisione, tecnicamente non era un suo problema. Non che avesse intenzione di dirlo a qualcuno tranne che a suo padre. «Quindi, solo per curiosità, qual era la risposta giusta? Da dove vieni?»

Il ragazzo sorrise, rivelando dei denti perfetti in un sorriso che arrivò dritto al cazzo di Atticus. «Io? Da San Diego.»

Lui ridacchiò. «Non c’era manco andato vicino, allora.»

L’uomo incedette nella sua direzione fino a quando non ci fu meno di un metro tra loro. «Non proprio. Sono per metà cinese. Ma sono anche per metà messicano. Solo che non volevo dare la minima soddisfazione a quel coglione razzista. Inoltre, il gioco ha aggiunto un po’ di pepe, non credi?»

«È stato divertente. Come quando uccido con i miei fratelli.» L’attimo in cui le parole scivolarono fuori dalle sue labbra Atticus chiuse gli occhi, irritato con se stesso.

«Intendi i tuoi fratelli reali? O fai parte di una banda di rossi muscolosi che hanno l’aspetto di chi vende assicurazioni come secondo lavoro?»

Atticus non sapeva se sentirsi lusingato oppure offeso. Le parole dello sconosciuto erano derisorie, ma il suo tono era al limite del salace. «Stai… stai flirtando con me?»

L’altro fece spallucce, eliminando la distanza tra loro. «Beh, quante volte incontri qualcuno a cui non devi mentire su quello che fai?»

«Non sono gay,» rispose Atticus, ma quell’affermazione suonò incerta anche alle sue stesse orecchie.

Il ragazzo sorrise, e lui sentì le farfalle nello stomaco. «Sì, ma non sei nemmeno etero, vero?»

«Sono psicopatico,» replicò.

Lo sconosciuto si curvò in avanti e gli sussurrò in tono cospiratorio: «E io scorpione. Però mi piace comunque sbattermi i ragazzi.»

«Io…» Atticus si interruppe. «Non so cosa fare con queste informazioni.»

L’uomo arcuò le sopracciglia verso l’alto in modo suggestivo. «Mi vengono in mente alcune cose…»

Annaspò, sperando nel frattempo che entrambi potessero ignorare la sua evidente erezione. «Non conosco nemmeno il tuo nome.»

«Jericho.»

«Non è un nome vero,» asserì.

L’altro emise un verso nasale. «Mia madre non sarebbe d’accordo. Tu come ti chiami?»

«Atticus,» borbottò, rinunciando chiaramente a tutti i tentativi di autoconservazione.

«Non è un nome vero,» ricambiò Jericho, il tono che era una via di mezzo tra il provocatorio e il seducente; avanzò fino a che non si trovò fra le sue ginocchia divaricate. Puntò lo sguardo sul suo cazzo eretto contro la cerniera. «Hai bisogno di aiuto con quello?» Ciò di cui Atticus aveva bisogno era aprire la bocca e dire di no prima di uscire da lì, ma Jericho continuò e disse: «Ho sempre voluto succhiarlo a un roscetto. Ha un sapore diverso?»

«Sei offensivo,» riuscì a dire lui, guadagnandosi un altro ghigno da parte di Jericho. Quel cazzo di sorriso.

Atticus non ricordava di aver arricciato le dita nella maglietta dell’altro uomo, né di averlo trascinato in avanti, ma doveva averlo fatto perché le loro bocche si fusero in un bacio che era più denti che lingua. Nell’attimo in cui si sfiorarono, il suo senso della ragione volò fuori dalla finestra, consumato dal bisogno. Non c’era nulla di delicato, in quello scambio, né di lento o trattenuto. Fu grezzo e al limite del doloroso, con gli incisivi che trascinavano e mordevano la pelle tenera, le lingue in lotta per il dominio.

Quando le mani dell’altro gli tirarono l’orlo della t-shirt, Atticus non resistette e alzò le braccia. Jericho la gettò via, poi prese a sbottonargli i pantaloni. Lui non lo fermò. Diavolo, al contrario alzò il culo quando glieli tirò giù insieme alle mutande quel tanto che bastava per chiudere la bocca sul suo sesso turgido.

«Gesù Cristo,» mormorò, sgroppando con i fianchi mentre l’altro tentava di succhiargli l’anima dal corpo. Ricadde sugli avambracci, con i muscoli addominali che gli si contraevano a ogni affondo e quelle che sembravano scintille cariche di elettricità che gli correvano lungo la sua spina dorsale. Cazzo. Il calore di quella bocca era perfetto. Atticus non poté fare a meno di aggrovigliare le mani nelle ciocche setose dei suoi capelli e scopargli la gola.

C’era mai stato qualcuno che gli aveva fatto un pompino del genere? Se l’era spassata con un uomo una volta o due, ma le sue esperienze erano limitate in generale. A parte la sua gelida e ormai ex fidanzata Kendra, con cui era stato per molto tempo, poteva contare i suoi partner su una mano sola, e gli avanzavano pure due dita. Ma quello… Porca troia. Atticus non riuscì a trattenere i versi di piacere né a reprimere l’impulso di arricciare le dita tra i capelli dell’altro quasi avesse voluto punirlo.

«Ci sono vicino,» mormorò.

Jericho non si fermò. Al contrario, raddoppiò i propri sforzi. Atticus non riusciva a distogliere lo sguardo, quasi come se il solo osservare quella testa che gli oscillava tra le gambe fosse sufficiente a eccitarlo tanto quanto sentire le labbra talentuose e la lingua esperta di quel tizio. Quando un paio di occhi castani sfrecciarono verso l’alto, catturando i suoi, fu spacciato. Emise un grido penetrante, inondando la bocca dell’amante.

Jericho ne ingoiò ogni goccia, succhiandogli il cazzo finché gli addominali di Atticus non si contrassero e lui sibilò, ipersensibile, spingendolo via. Subito dopo però attirò l’uomo a sé per poi catturargli la bocca; percepì il sapore del proprio sperma sulla sua lingua, e nel mentre gli infilò la mano nei jeans. Strinse il pugno attorno al cazzo grosso e imperlato di liquido preseminale dell’omicida, incapace di trattenersi dal lanciare un basso mormorio di approvazione. Quello sicuramente non aiutava la sua causa nell’affermare di non essere gay, ma ormai aveva perso troppo la testa per preoccuparsene. Lo masturbò con lo stesso livello di entusiasmo che Jericho gli aveva riservato, ingoiando ogni gemito ansimante dell’altro e usandolo come guida.

Non ci volle molto. Atticus si servì del liquido preseminale sul glande di Jericho per facilitare la sua presa e scorrere, nel frattempo, lungo tutta l’asta con il palmo. Ben presto Jericho prese a scopargli il pugno, coi fianchi che scattavano sempre più velocemente. Non si stavano più baciando, ma le loro bocche erano abbastanza vicine che l’uno riusciva a sentire ogni respiro tremante e ogni gemito roco dell’altro. Era talmente sexy che Atticus desiderò di non essere già venuto.

All’improvviso Jericho sgroppò perdendo il ritmo, e gli si mozzò il respiro quando venne tra le sue dita, rabbrividendo per gli ultimi spasmi di quel piacere intenso. Poi appoggiò la fronte contro quella di Atticus, il quale a quel punto tirò via la mano e se la pulì sui pantaloni.

Una volta separati, ciascuno si occupò di sistemarsi i vestiti. Atticus era agitato. Non aveva idea di cosa fosse appena successo o di come le cose fossero andate tanto a rotoli, ma aveva appena fatto una sega a un uomo ad appena un metro di distanza da un cadavere senza dita. Col cavolo che quello l’avrebbe detto a suo padre.

Si schiarì la gola. «Beh, è stato…» Si interruppe. Cosa avrebbe potuto dire?

«Sì,» concordò Jericho.

«Sei sicuro di non aver bisogno di aiuto per…» Indicò Trevor.

L’altro tossì leggermente. «No, sono a posto.»

A quel punto si rimise lo zaino sulla spalla. «Okay, allora. Ciao… credo,» borbottò, andando verso la porta; si girò, poi si voltò di nuovo quando vide che Jericho gli dava le spalle.

Pensò significasse che era stato congedato.

Meglio così, suppose. Non era gay. E anche se lo fosse, cosa avrebbe fatto? Avrebbe chiesto a Jericho un appuntamento? Metaforicamente parlando, non vivevano nemmeno sullo stesso pianeta. E poi Atticus doveva mantenere le apparenze. Essendo il maggiore, Thomas si aspettava di più da lui. Era semplicemente così che andavano le cose. A suo padre non sarebbe importato se Atticus fosse stato gay. Diavolo, Thomas stesso era gay. I suoi fratelli erano gay, alcuni erano bisessuali. Solo che… Lui non poteva esserlo. Non poteva. Essere etero era… più facile. Le ragazze erano carine. Erano morbide e profumate. Aveva un piano per la sua vita, e quello non prevedeva masturbare bellissimi assassini in baite inquietanti. A prescindere da quanto intenso fosse stato il suo orgasmo.

Una volta tornato alla sua auto lanciò lo zaino sul sedile del passeggero e premette il pulsante di accensione, prima di rendersi conto che indossava ancora gli stivali infangati. Dannazione. Sbatté la testa sul volante per poi scagliarsi nuovamente contro il sedile del conducente.

Ma che cazzo stava succedendo?

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